Forse,
per comprendere la violenza, invece di invocare innate spinte di morte è meglio
chiedersi se non esistano delle premesse più o meno implicite che fanno da humus
al germe della violenza. Amy Chua ha recentemente parlato del tempo
presente come «Età dell’odio», nata dal contrasto tra la possibilità di accedere
al potere decisionale data a tutti e il possesso delle ricchezze rimasto nelle
mani di pochi. Non ci si può illudere di mantenere la pace nel pianeta con
logiche di dominio economico imperialistico, che creano o mantengano i popoli
in posizioni subalterne. Come accade in ogni vita di gruppo, non c’è vero
accordo fin quando tutte le obiezioni non sono emerse e sono state rispettate da
tutto il gruppo. Allo stesso modo, l’umanità non può pensare di avere risolto i
problemi dell’odio e della guerra solo attraverso un accordo di pochi, anche se
potenti. Da tempo viene sottolineata l’importanza del principio-responsabilità
(Jonas), secondo cui è urgente prendersi cura sin da ora delle generazioni
future, sebbene queste non possano ancora far sentire la loro voce. Qualcuno ha
detto che fin quando l’odio tra i popoli sarà più forte dell’amore per i figli
le guerre non finiranno. Oggi, forse, diventa necessario non solo ascoltare ed accogliere
la voce di chi sta male, ma «approssimarsi» (Cassano) all’alterità silenziosa,
a quella che non ha gli strumenti o la possibilità di parlare. Abele non parla,
è il suo sangue che grida.
Giovanni
Salonia, Sulla Felicità e dintorni. Tra
corpo, parola e tempo, Ed. Il Pozzo di Giacobbe, pag.119
Etichette: #CollanailPozzodiGiacobbe, #giovannisalonia