Per
migliorare la consapevolezza del paziente, si può iniziare chiedendo alcuni
minuti prima del termine della seduta quale parola non ha detto, quale gesto
non ha compiuto, quale richiesta non ha presentato. Le risposte a queste
domande danno delle informazioni preziose sui vissuti che il paziente vive con
maggior disagio e ansia. Un’altra strada suggerita da From è chiedere al
paziente di ricordare i sogni compiuti dopo la seduta: spesso sono elaborazioni
dei vissuti retroflessi. Famoso il suo racconto di quel seminario in cui, al secondo
giorno, un partecipante gli disse «Ho fatto un piccolo sogno» e lui rispose,
ammiccando: «Volevi dirmi che io sono piccolo». Al di là della narrazione,
sempre incompleta e imprecisa (direbbe lo stesso From), emerge come il
terapeuta deve vedere i micro-movimenti sincopati (dagli occhi che sfuggono, alle
mandibole serrate, alle labbra che si mordono, o altro) che esprimono il corto
circuito della retroflessione tra bisogno e angoscia di esprimersi. Come ci ha
ricordato Perls, la noia, la mancanza di argomenti spesso rivelano una
difficoltà del paziente di portare al confine di contatto temi relazionali
(aggressività nei confronti del terapeuta, richieste percepite come umilianti,
paura di essere svalutato, etc). Anche il fatto che a volte il paziente inizi a
parlare di argomenti drammatici negli ultimi minuti vuol dire – è ovvio – non
che il tempo sia stato poco (per cui si deve allungare la durata della
terapia), ma che è grande la fobia di fidarsi del terapeuta. A volte risulta
propedeutico chiedere al paziente di diventare consapevole di ciò che avrebbe
voluto dire o chiedere senza che questo implichi l’obbligo di condividere.
Giovanni
Salonia, Pensieri su Gestalt Therapy e
vissuti narcisistici, in G. Salonia,V. Conte, P. Argentino, Devo sapere subito se sono vivo. Saggi di
psicopatologia gestaltica, Ed. Il pozzo di Giacobbe, pagg. 175-176
Etichette: #CollanailPozzodiGiacobbe, #giovannisalonia