Non
possiamo capire la storia della modernità in Occidente senza renderci conto
della cesura che in essa si è consumata: l’uscita dalla tradizione, iniziata
con l’avvento della scienza, ha significato la crisi delle parole-corpo: la
velocità ha strozzato il tempo del dialogo autentico, l’affermazione della
ragione scientifica ha messo fuori gioco i linguaggi della religione,
l’industria culturale ha avvilito la poesia. La vittoria dell’economia nella
modernità è la vittoria della tecnica: quel che era pensato come puro strumento
ora diviene la misura di tutto. Relazioni strumentali, linguaggi strumentali,
esperienze strumentali, governate cioè da una razionalità puramente
strumentale: niente vale per sé, ma tutto è da valutarsi in vista della resa,
in vista dello strumento (Marx lo aveva capito, e Galimberti ce lo ha
ricordato) che è la misura del moderno ed è l’embema della vittoria della tecnica:
il denaro. L’accumulazione del denaro è l’accumulazione di qualcosa che la
tradizione ha sempre pensato come uno strumento-per, e che la modernità rende
un fine in se stesso ed eleva incredibilmente a misura di tutto. Capiamo allora
perché la tecnica occidentale (ovvero l’economia) è il segno sotto cui si è
globalizzato il mondo: la tèkne ha
ingoiato gli altri spazi di esperienza e ha posto sotto il proprio dominio, in
un parallelismo inquietante, la guerra e il linguaggio.
Antonio Sichera, Guerra, globalizzazione e linguaggio in M.
Assenza – L. Licitra – G. Salonia – A. Sichera, Lo sguardo dal basso. I poveri come principio del pensare, EdiARGO,
Ragusa II edizione 2006, pp. 136-137
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