Per correttezza è
necessario tuttavia notare come il termine “accompagnamento”, usato (come
avviene oggi) per indicare le relazioni di aiuto, ha nel proprio etimo una
sfumatura di ambiguità (quasi una lieve forzatura), dato che cerca di attutire
la realtà inoppugnabile dell’asimmetria relazionale che è propria della
relazione di aiuto. Chi accompagna, infatti, ha sempre e comunque la
responsabilità della relazione e non può né percepirsi né comportarsi a livello
paritario. Migliorare, infatti, il modo in cui si esercita il “prendersi cura”
non deve mai stravolgere la struttura asimmetrica della relazione, quell’ordo
- direbbe Agostino (e confermano le terapie familiari) - che rende genuino ogni
amore. È un ordo amoris per cui il prendersi cura non può essere
autentico se viene esercitato assieme al bisogno di avere potere, di riceverne
successo, di vincere la solitudine. L’essere aiutato deve crescere e maturare
al di là della dipendenza e dell’umiliazione. Nella relazione di aiuto (ossia
nell’accompagnare) chi accompagna deve promuovere nell’accompagnato il dialogo
interno, il potere e la creatività personale, la solitudine feconda.
Giovanni
Salonia, “Dacci oggi i pani per condividere. Accompagnare
prevede ruoli e atteggiamenti differenti” in Messaggero Cappuccino.
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