La speranza è un atteggiamento costitutivo della condizione umana. Chi vive spera: spera di poter continuare a respirare, spera di portare a compimento ciò che ha iniziato, spera che andrà meglio o continuerà il benessere. In effetti, l’unico tempo che viviamo – perché è l’unico a noi disponibile – è quello della speranza: quello spazio tra il now (l’adesso) e il next (il prossimo passo). Se chi ci sta parlando per un attimo interrompe il fluire delle parole, noi restiamo in attesa della parola non detta. Parlare e ascoltare significano, in fondo, un collocarsi tra la parola ascoltata e quella attesa. La mente umana conserva nella memoria i compiti non conclusi (l’effetto Zeigarnik), quasi a dirci che non sopportiamo che la speranza rimanga delusa.
A sperare si apprende subito, proprio agli inizi dell’esistenza. E si apprende in una dinamica relazionale. Quando il bambino avverte un bisogno fisiologico attende e spera che qualcuno allevi la sua sofferenza. Il fatto che ci sia una risposta (nonché i tempi della risposta) strutturano nel bambino la base affettiva e le modalità della speranza. Quando la madre (o la figura del care-giver) è assente, il bambino, ricordandola, spera che ritorni: in questo modo trasforma l’assenza in tempo dell’attesa e attraversa questo tempo con la speranza. Gli studi sull’infanzia abbandonata hanno mostrato che se la madre non torna (e nessuno la sostituisce) il bambino sviluppa lentamente una depressione tale da rinunciare a nutrirsi e arrivare a morire. È proprio vero che finché c’è speranza c’è vita.
Giovanni Salonia
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