Fondato sull’arché implicita
del corpo vivente, di quel Leib che è la sorgente di tutto, l’ingresso
nel linguaggio, visto dal côté materno, assume i caratteri di un evento
poetico, di cui il bambino deve allora essere il fruitore. Chiediamoci: che cosa
fa il bambino all’inizio di quel lungo processo che lo porterà alla parola? A rigore
non ‘fa’ nulla. Semplicemente si lascia prendere dal puro sgorgare di un flusso
verbale che non capisce, ma che coincide per lui con il contatto con il corpo musicale
della madre, alla cui bocca e al cui volto corrisponde in una sintonia di canto
che lo condurrà dalla phoné al significato e al senso, dalla diade al mondo.
I contorni di questa esperienza sono chiari: ad attirare la risposta infantile
è l’intendimento del desiderio come struttura della musica materna, fondato
sulla comprensione originaria del senso relazionale di quella musica: non sa
quel che significa ma capisce benissimo che è ‘per lui’, percepisce insomma finemente
la qualità relazionale della melodia. È su questo sfondo che matura la
comprensione secondaria, la distinzione del significante e l’accesso al
significato delle parole della relazione: in esse e grazie ad esse il bambino è
aperto al mondo. Non diversamente per chi sta in ascolto autentico del dire
poetico. Anche per lui il primum è la musica, colta in quanto
relazionalmente connotata (quando diciamo di ‘sentire’ una poesia è perché essa
ci coglie, ci fa sentire interpretati, come se fosse una parola ‘per noi’, una
parola ‘per me’), e solo su questa base resa testo interpretabile, parola da
dispiegare, apertura di un mondo di significati e di messaggi.
Antonio Sichera, Per un’ermeneutica della narrazione, in Testo. Studi di teoria e storia della
letteratura e della critica, 63 Nuova Serie- Anno XXXIII, Gennaio-Giugno
2012, Fabrizio Serra Editore, pag. 27
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