Sicuramente è necessario non
ridurre la resilienza a un tema cognitivo, a scanso di sentirsi rispondere,
come don Abbondio, che “il coraggio uno non se lo può dare”. In ultima analisi,
di fronte alla difficoltà di essere (a essere) resilienti, è necessario non
tanto ripetere il mantra: “Devo farcela”, We
can, ma individuare quale delle specifiche qualità che formano l’atteggiamento
globale della resilienza non è stato assimilato e, quindi, il modo in cui
elaborare tale mancanza. La sensazione intima di essere “più forte delle
difficoltà” e di “avere energie per ricominciare dopo qualsiasi contrarietà” è
una sicurezza di base che solo – come abbiamo detto – uno sviluppo sano, cioè
sostenuto da figure genitoriali accudenti, può garantire. Chi ha maturato
questa consapevolezza e competenza diventa resiliente: è cioè capace di
affrontare le difficoltà per quello che sono e con tutto se stesso. Reagire in
modo repressivo sarebbe un soffocarle, in modo scisso uno scotomizzare la
consapevolezza di esse, in modo euforico negarne la gravità. Come l’atleta che
raccoglie in sé tutta la propria forza, concentrandosi su se stesso, piegandosi,
incassando il colpo per scattare quindi con un balzo in avanti e sconfiggere
l’avversario, così la reazione resiliente (preziosità del termine!) fluisce,
quasi musicalmente, dall’accettare, all’accogliere rimanendo integri al
riproiettarsi in avanti. Una flessibilità sinuosa, che dice tutto il cammino di
crescita che il soggetto (e chi si è preso cura di lui) ha compiuto. Come nelle
arti marziali l’urlo, espressione della propria forza, richiede una
preparazione progressiva e una raccolta in unità di tutto se stesso, così la
resilienza è genuina se esprime integrità e pienezza ritmati in tre movimenti:
mi piego, sento la mia forza e poi balzo in avanti.
Giovanni Salonia, Resilienza
e dono, in Credere Oggi 37 (2/2017) n. 218, Edizioni Messaggero di Padova, pagg.
136-137
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